Basterebbe incontrare una scimmia in giardino

Udite udite, o meglio leggete leggete....mi sono classificata decima ad un nuovo concorso letterario, scoppio di gioia e devo condividerla. 

e poi BASTEREBBE INCONTRARE UNA SCIMMIA IN GIARDINO per rendere tutto più semplice!




il mio breve racconto parla di cosa significa essere donna, di quanto sia complicato, ma nello stesso tempo di quanto sia impagabile accettarsi, bastarsi, rispettarsi e difendersi sempre e nonostante tutto.

Ho sempre giocato con i maschi. Fin da quando ho ricordo. Non so se questa fosse già una scelta consapevole o solo la necessità di mettermi alla prova. L’istinto che si è capaci di seguire nell’adolescenza è puro e genuino, per cui la mia propensione non era conseguenza di nessuna contaminazione o preconcetto. Ripensandoci credo di aver cominciato a giocare con loro semplicemente perché mi piaceva il calcio. Io e la mia famiglia allora vivevamo in un complesso di quattro condomini che avevano tutti un giardino comune. L’affollamento di adolescenti in quel luogo di svago era qualcosa di imbarazzante e io, arrivata lì, da un’altra città e senza amici, scelsi di far gruppo coi ragazzi. La visione di bambine agghindate con fiocchi colorati e smalto alle mani  a dieci anni mi diede ribrezzo. Io era una tipa comoda. Capello corto, scarpe da tennis e un po’ di pancetta. Pensare di fare attività fisica giocando, fu una spinta anche per rendere felice mia madre. Purtroppo mi misero da subito in porta, forse proprio per la mia stazza. Senza muovermi riempivo già la metà dello spazio che dovevo difendere. Non tenni mai il conto delle palle parate, nei dei gol presi, per me la prestazione non era importante. L’importante era essere accettata da quel gruppo. Ero l’unica femmina della squadra e per alcuni una presenza molto scomoda. Nonostante ne fossi ben consapevole, non li abbandonai mai per tornare a giocare con le bambole, come dicevano certi. Ma loro non sapevano che in camera mia avevo una collezione di carabine ad aria compressa e tante antologie di animali. Io non ci avevo mai giocato con le bambole, forse solo perché aspettavo un fratellino vero. E fu un pomeriggio di primavera, ricordo ancora perfettamente il profumo dell’erba , che tutto cambiò. La partita era iniziata da una ventina di minuti. SI trattava della finale, poi tutti avremmo finito la scuola e ce ne saremmo andati in ferie per l’estate. La tensione era nell’aria. Mi sudavano le mani e non per il caldo. La mia squadra perse la palla, poi ci fu una colluttazione in area di rigore. Io cercavo di individuare il pallone per cui non mi accorsi dell’avversario che stava arrivando, come una furia, in scivolata. Mi gettai di lato per bloccare la sfera con entrambe le mani e mi arrivò in pieno viso una scarpata. L’arbitro fermò la partita. Io non ne capivo il motivo. Avevo gli occhi di tutti addosso e non solo. C’era chi cercava di tamponarmi il naso con la maglietta, chi continuava a chiedermi come stavo. Il capitano chiese un cambio. Io rifiutai e resistetti fino al novantesimo. E con il naso rotto, quel pomeriggio, parai anche un calcio di rigore. Da quella partita entrai di diritto nel gruppo, mettendo a tacere qualsiasi antipatia. Non solo mi permettevano di giocare sempre con loro, ma quando non ero in cortile mi venivano addirittura a citofonare a casa preoccupati. Di quell’adolescenza, oggi, mi resta una piccola gobba sul naso, la continua necessità di mettermi alla prova e la certezza che resterò sempre figlia unica. Ora, da donna adulta, gioco le mie partite al lavoro. L’ambiente è più ostico, ma i gruppi sono gli stessi. Femmine contro maschi, nonostante l’obiettivo sia comune. Da adulta, consapevole e aperta, non mi schiero con nessuno. Vivo la mia carriera professionale cercando di fare del mio meglio, senza  urtare sensibilità o ledere ambizioni. Nella piramide gerarchica, nonostante lavori da ormai più di vent’anni, resto sempre sul fondo. Sopra di me ci sono solo uomini, non tutti capaci, ma tutti molto abili nel farti sentire sempre in difetto. Come quando sto a casa. Nonostante sia una donna in ottima salute, le assenze al lavoro mi vengono sempre fatte pesare. E’ come se essere madre, in ufficio, venisse considerato un difetto. Avere la necessità di accudire mio figlio quando malato, è considerato un ostacolo alla mia possibilità di carriera.  E allora io, da donna consapevole, adulta e razionale, lo accetto e cerco di trovare le massime soddisfazioni altrove. A casa ho una piccola squadra di maschi. Mio marito e mio figlio. Sono ancora l’unica donna del gruppo, ma questa volta il mio ruolo non solo è accettato, ma è anche totalmente rispettato. Loro mi vedono come il pilastro attorno al quale ruota tutto il resto. E io, grazie a loro, mi sento forte, anche quando non lo sono per niente. Ripensandoci credo che il parto sia stato il momento in cui, per la prima volta nella vita, mi sono sentita invincibile. Ho un nitido ricordo del dolore, come della piena consapevolezza che l’avrei sopportato. Ricordo le mani di mio marito che, per dodici ore, non hanno mai lasciato le mie. E fu in quell’intreccio di dita che io, per la prima volta, capì quanto è bello essere  donna. Io, donna, stavo per mettere al mondo una vita  e lui,  uomo, mi stava guardando come se fossi il suo eroe. E forse lo ero davvero. Quella notte avrei potuto muovere una montagna con un dito. Quella notte avrei potuto cambiare il mondo. Quella notte avrei potuto fare miracoli. E infatti, proprio quella notte, cambiai il mio mondo, fui capace miracolosamente di dare alla luce un figlio ed evitai di spostare una montagna solo perché la mia mano era ancora stretta a quella del mio più grande amore. Da quel giorno non dico, come molte donne sostengono, di essere più completa, né finalmente soddisfatta, dico solo di essere cambiata. Con la nascita di mio figlio, è come se fossi nata di nuovo anche io. Assomiglio a quella di prima, stesso naso, stessi occhi , tono di voce simile ma non uguale, cuore gonfio e testa più leggera. Ma oggi lotto solo per ciò che conta davvero. Mi metto alla prova quando capisco che andare oltre i miei limiti può davvero fare la differenza. E mi interesso del futuro. Per questo il 25 novembre scorso ho messo un paio di scarpe rosse e ho partecipate ad un corteo, fatto per donne e di donne, per lottare contro la violenza che molte di noi subiscono tutti i giorni. Sapere che accanto a me avrebbe potuto esserci una donna maltrattata è stato qualcosa di molto inteso, come intesa fu la decisione di leggere un pensiero dedicato a quella giornata. Mi dissero di andare su un piccolo palco improvvisato e di parlare a voce alta. Ci provai.
Con il tacco di una scarpa una donna disegna un cerchio.
Non è perfetto. Non è chiuso.
Non è mai  stata brava, nemmeno da piccola, quando usava una tazza di ceramica sbeccata per fingere di essere qualcosa che non era.
Non ha mai smesso di fingere e non ha mai imparato a disegnare.
Ora, adulta, si trova davanti ad un bivio. Le sue scarpe rosse sono sporche di polvere e fango. Portano segni di lunghi cammini, spesso in salita, segni che lei ha sulle ginocchia, sulle mani, sul viso.
Destra, sinistra, avanti o indietro.
E’ ferma e le gira la testa.
Entra nel suo cerchio e respira. Lo spazio aperto intorno a lei le dà un senso di leggerezza e vomito.
Deve camminare, lo sa.
Guarda in alto e il profilo di sua madre è nascosto tra una ragnatela di nuvole. Con voce sottile lei la chiama. Non le è mai mancata così tanto come adesso.
Non c’è risposta, solo una pioggia sottile come aghi di pino le pizzica la pelle delle braccia.
Poi una voce, la sua.
Fai un passo, fanne un altro …. non ricorda il seguito di quella filastrocca, ma un sapore di zucchero filato le riempie la bocca.
Guarda per terra e il cerchio è ancora lì. Non è perfetto, non è chiuso.
Con la punta consumata della scarpa ne segue il perimetro, senza uscire da quello spazio disegnato.
Fuori fa freddo. Un vento che gela le ossa la fa tremare.
La gamba rotta anni fa le duole. Fu un incidente disse ai medici che la soccorsero. Fu un incidente si ripete adesso, mentendo.
Dalla strada principale un’ombra sembra nascondersi dietro ad un palo. Solo la punta di un naso ne esce, un naso aquilino, lungo.
Può appartenere solo a qualcuno che dice bugie pensa, sentendo il fiato di sua nonna sulla sua spalla.
La campana della chiesa batte le sette.
E’ ora di andare.
Destra, sinistra, avanti o indietro.
Chiude gli occhi e disegna con la fantasia una strada piena di girasoli.
Deve seguire il sole, ecco dove deve andare.
All’incrocio di strade non ci sono segnali, solo un semaforo che lampeggia di azzurro.
Lei si guarda le scarpe e sente caldo nel cuore. Il cerchio in cui si trova non è perfetto e non è chiuso.
Ha smesso di piovere.
La ragnatela di nuvole ha lasciato spazio ad un cielo abbagliante.
Da sinistra le arriva una voce, la sua.
Fai un passo, fanne un altro, fai la giravolta, falla un'altra volta….
Per la prima volta segue il suo consiglio. Perde l’equilibrio e una scarpa.
Poi si toglie anche l’altra e con un ginocchio sbucciato si rialza.
Guarda a terra, è uscita dal cerchio.
Con i piedi nudi ne cancella la circonferenza.
Solo le scarpe rosse resteranno lì a ricordare la sua presenza.
La donna fissa la punta di quel naso aquilino che spunta dal palo e decide di prendere la strada opposta.
Sarà un lungo cammino il suo, spesso in salita e che le lascerà nuovi segni sulle ginocchia, sulle mani, sul viso.
Ma, ora, lei non ha paura perché sa che dopo tutti quei passi sarà finalmente libera, a piedi nudi, in un campo  di girasoli.

Finito di leggere mi girai di lato e vidi una donna con un braccio legato al collo. Senza che io le chiedessi nulla mi disse che era caduta. A quel punto mi sono guardata le scarpe rosse, poi ho guardato le sue. Indossava semplici mocassini di pelle marrone, forse per non svelare a nessuno dove si sarebbe diretta quel pomeriggio. I nostri occhi si toccarono e ci capimmo.
Tornai a casa con un tormento nel cuore. Mio figlio di quattro anni mi corse incontro, urlando che aveva una bellissima cosa da dirmi, qualcosa che mi avrebbe reso davvero felice.
Aveva incontrato una scimmia in giardino.
Mi sono seduta, l’ho guardato  e improvvisamente avrei voluto essere in mezzo ad un porta, pronta per parare il mio secondo calcio di rigore.
Poi l’ho abbracciato e ho pianto.  



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